Farrucchero e crudismo


Qualche anno fa frequentavo una ballerina di pole dance, conosciuta durante un suo turno di lavoro, una sera piovosa di settembre a Milano. Era il 2012 e mi piaceva uscirci insieme. Mi piaceva il profumo che soleva portare e molto mi piacevano le suo petto prosperoso e turgido.
Me l’ha fatta ricordare la mia fidanzata qualche giorno fa, mentre mi rivelava la sua novella intenzione di diventare crudista.
– Voglio diventare crudista! –
– Cosa vuol dire crudista, Amore? Che mangi solo prosciutto crudo? –
La mia fidanzatina aveva riso alla battuta e risposto con un bacio. Con mia grande soddisfazione, tra l’altro, poiché la stessa battuta la proposi anni prima alla ballerina di pole dance, che tutt’altro che divertita, allora mi rispose in tono stizzito:- No, idiota. Non mangio cadaveri. I crudisti si cibano dei frutti della terra per come la terra li partorisce. Senza alterare chimicamente la loro composizione, già di per sé naturale e perfetta. –
Anche la ballerina di Pole era crudista. O meglio, anche lei, lo sta diventando. Ci vuole tempo per diventare crudisti. E’ una specie di percorso che uno inizia e non sa bene nemmeno se vuole concludere.
– Cioè senza cuocerli? –
– Sì, senza cuocerli. –
“ Come gli Homo Abilis! Fanculo il fuoco e si fotta l’evoluzione della specie. Ottimo. Un’altra squinternata.” Ma questo mi limitai a pensarlo, perché, insomma, capiamoci… certo non ero andato in quel locale per avere una discussione accademica sul nutrizionismo, quanto piuttosto per pucciare il mio biscotto. Facemmo sesso quella sera e un altro paio di volte, fino a quando io commisi il classico errore del pivello che si imbatte in quella che comunemente viene chiamata “gnocca”: mi ci misi insieme e divenne la mia morosa per quasi 4 mesi.
Il suo nome d’arte era Sharon, Lucrezia all’anagrafe.
I vecchi e bavosi clienti smaniano dalla voglia di sapere i veri nomi delle ragazze. Penso di essere l’unico che avrebbe invece preferito non saperlo: Lucrezia è proprio un brutto nome. Proprio non lo soffro il nome Lucrezia. Il suono mi risulta così cacofonico che anche solo provare a pronunciarlo, specie davanti a lei, senza ridere, era per me impossibile. Eravamo al cinema quando le chiesi: – Senti, non è che ti dà fastidio se ti chiamo Sharon anche quando siamo fuori dal locale?-
– Perché? Lucrezia non ti piace? –
– Figurati! Bellissimo il nome Lucrezia. Ci chiamerei mia figlia, se mai ne avessi una. Lucrezia Bottino. Senti come suona bene. – Articolai “Lucrezia” e un po’ mi venne da ridere. Sharon se ne accorse e il suo visino gentile si fece sospettoso e un po’ indispettito.
– E allora perché vuoi usare il nome che uso con i clienti? Sai, mi mette un po’ a disagio. Vorrei che mi chiamassi con il mio vero nome. –
– Il nome con cui ti ho conosciuto è Sharon. Il momento in cui i miei occhi hanno incrociato i tuoi, sapevano che era di Sharon quello sguardo. E’ Sharon la donna che attesi fino agli albori del sole mattiniero, perché finisse la sua notte di lavoro e potesse così venire via con me. Fu Sharon ad avvicinare il suo viso al mio e offrirmi le sue labbra. E’ Sharon che baciai. Lascia che mi rivolga a te come ho fatto quando ci siamo incontrati. Lo trovo molto romantico. –
I suoi occhi si addolcirono e con le labbra carnose mi schioccò un bacetto sulla guancia. Cosa non si fa per carpire il culo di una donna. Quante cazzate si dicono.
Lei stava a Rogoredo ma frequentava i corsi presso la Cattolica di Milano. Io in quel periodo vivevo in uno squallido bilocale a Milano, in zona Missori, perché per l’ennesima volta i miei mi avevano cacciato di casa, costringendomi (con i loro soldi!) ad affittare un buco lontano da casa.
– Sarebbe tanto comodo se durante la settimana, tornassi a dormire da te dopo il lavoro. La mattina a lezione, se la notte prima ho lavorato, non ci capisco nulla. –
Mi disse un giorno gonfiando il petto e facendomi gli occhi dolci.
– Ti secca se domani porto qualcosa di mio qui da te? –
“No! Puttanella maledetta, che fai continuamente leva sul mio psicotico desiderio di scoparti per ottenere quello che da me vuoi. E ora vuoi scroccare un tetto. Vuoi che ti accolga dopo che hai aperto le gambe, ti sei strusciata sul palo e dopo che hai accarezzato le gambe di quattro sessantenni che potrebbero essere tuo padre e tuo nonno. In più sei pure crudista e non credi nella bontà e supremazia del cibo cotto. Sei una pazza squilibrata. No! Mai. No che non la porti la tua roba a casa mia. O mi dai il culo adesso e domani te ne vai. Oppure vattene ora e basta!” pensai. Ma per Dio, in quel periodo il mio pene ragionava ad una velocità che era il doppio rispetto a quella del cervello e “Mi sembra un’ottima idea.” Fu quello che dissi. E lo dissi senza nemmeno guardarla in faccia, ma con gli occhi puntati sui suoi seni e i loro capezzoli turgidi, che, come pistole, puntavano verso di me.
Dopo averle detto sì, mi concesse il suo corpo (tranne il culo!) e l’indomani mattina se ne arrivò a casa con una valigia piena di vestiti e di “provviste”.
Mentre riempiva il frigo di finocchi, sedani, zucchine e pere, le chiesi perché aveva portato anche qualche scatoletta di fagioli precotti, di farro e di polenta.
“I cibi cotti affaticano l’organismo. Però non si possono togliere tutti di colpo. Uno al crudismo ci deve arrivare.” mi rispose guardando con gli occhi al cielo.
Accortasi delle mie evidenti lacune in ambito della cultura vegana/crudista, passò il primo giorno a spiegarmi quale sarebbe stata la sua dieta ideale e quale dieta avrebbe dovuto fare per arrivare a mangiare solo frutta e verdura cruda.
Mentre mi spiegava queste cose, sferragliava con le mie pentole e si cucinava un po’ di polenta che avrebbe poi condito con sale e paprika.
“ Ma che fa? Mi prende in giro? Non era crudista?! Perché si sta cucinando la polenta?” pensai inebetito dalla mia logica coerente, tipica degli onnivori e delle persone sane di mente, che del cibo non fanno una questione etica bensì estetica.

-Perché non ti fai un frutto. O un finocchio crudo? Se sei crudista…- le chiesi quindi, curioso.
-Perché il finocchio crudo l’ho già mangiato. La frutta la mangio dalle 8 am alle 4 pm. Così ho meno tempo per, eventualmente, sgarrare e mangiare roba cotta alla quale, mannaggia, mi hanno fatto abituare.-rispose lei.
– Eh, appunto. Sono le tre! –
– Lo so. Ma ho voglia di polenta. –
Polenta, sale e paprika.
Delizia.
In quel momento capì una cosa che solo chi vive con chi è patito di diete può capire: le persone si danno regole, per infrangerle, poi dunque sentirsi in colpa e infine autogiustificarsi per la cosa.

Quella stessa notte, mi rivelò di essere stata grassoccia nei primi 12 anni dell’infanzia, durante i quali aveva sviluppato un rapporto morboso con le schifezze alimentari e i dolciumi. Mi raccontò di quando, a scuola, i bambini la prendevano in giro chiamandola “scrofa” o “cicciabomba”. Mi rivelò che allora le piaceva un ragazzino con gli occhi blu e che quando lei gli si confessò, lui le rispose “Mi dispiace. Sei troppo grassa. Non mi piacciono le ragazze grasse.”
– Dovrebbe vedermi ora. Si mangerebbe le mani. – concluse lei accarezzandosi la forma dei seni e dei fianchi, al fine di sottolineare il fatto che nel frattempo era cresciuta bene.
– Voglio diventare crudista anche per questo. Se mi obbligo a mangiare solo cibi crudi e naturali, automaticamente escludo ogni forma di zucchero che non sia già presente nella frutta. E’ lo zucchero la vera droga! Quello raffinato. Quello bianco, più bianco della cocaina. Ci uccidono con quel maledetto zucchero! –
Sul fatto che lo zucchero raffinato sia un’arma di distruzione di massa, tutt’oggi non sono granché convinto, ma sul fatto che per certi individui possa essere una droga mi dovetti subito ricredere. Per lei lo zucchero era davvero una droga. Sharon era certamente tossica di zucchero e, se avesse potuto, probabilmente, lo avrebbe anche sniffato. Anzi, il fatto che io non lo sappia, non vuol dire che mai sia successo.
Sharon aveva da poco tempo abbracciato la filosofia del crudismo e da nemmeno un anno si era data al veganesimo. Non aveva quindi ancora, in realtà, sconfitto quel demone che da bambina le aveva fatto guadagnare l’appellativo di “ciccia-bomba”. E ogni tanto, quel diavolo ancora tornava a sussurrarle nell’orecchio e faceva salire la sua brama di dolci a livelli difficilmente contenibili. Ogni tanto Sharon riusciva a controllarsi e tentava di arginare il desiderio di torte e pasticcini, tritando una mela fra i denti, o una manciata di fragole. Certe volte però la frutta non bastava e quindi Sharon cedeva allo zucchero bianco. Quando questo succedeva però, Sharon aveva la necessità psicologica di mascherarlo, e quindi di mischiare lo zucchero a qualcosa di generalmente riconosciuto come salutare.
fu così che nacque il Farrucchero.

Cos’è il farrucchero?

Una sera infausta, l’isteria zuccherosa di Sharon la colse quando la dispensa era ormai vuota e priva di delizie. Il suo cuore fece un tonfo e nello stesso momento l’ingegno suo lavorò come mai prima d’allora ed elaborò un capolavoro dell’arte povera della pasticceria.

– Se cucino del farro, senza sale, e a questo aggiungo lo zucchero in cottura, questo diventerà dolce. Il farro è un cereale, come il mais, non posso soffiarlo ma posso scaldarlo e addolcirlo con una valanga di zucchero – esclamò.
La dedizione le costa venti minuti e buttato giù il primo boccone, il sapore esplose in una frase che non ho mai inteso se seria o ironica.

“Buono questo Farrucchero!”


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