Tutta colpa di Fabri.


E’ tutta colpa di Fabrizio. “Fattela una bici” “La bici è il mezzo del futuro” “Stai sicuro che ti piacerà…” Una manovra di persuasione durata mesi, fatta di ghigni beffardi quando il Fabri arrivava prima del mio autobus, e di frasette buttate lì. -Aspetti l’autobus con me?- -Ma va, sono in bici. L’avessi avuta anche tu…facevamo una passeggiata… – O ancora: -Fabri devi darci un attimo perché stiamo cercando parcheggio e non si trova un cazzo- -Eh, sfigati. Io sono in bici. Non ho avuto problemi.- “Fanculo a ‘sta cazzo di bici.” pensavo io. La pazienza è la virtù dei forzi; e come una goccia che cade nello stesso esatto punto della precedente, scavando lentamente nel mio cervello, Fabri non si era mai arreso e piano piano, giorno per giorno, innestava e coltivava nei miei pensieri l’idea di ciclo-munirmi. Venne aprile e portò i fiori. Il sole cantava caldo nel cielo e le fredde giornate di inverno sbiadivano nei cassetti della memoria. Io e Fabri uscivamo da una riunione e diretti verso casa – lui in bici io a piedi – camminavamo sulla strada deserta mentre il tramonto si consumava alle nostre spalle, colorando il cielo di rosa e di arancio. -Caspita, pensa che bello se anche tu fossi in bici e ci facessimo una super pedalata verso il tramonto. Non fa caldo, non fa freddo. Sarebbe una serata perfetta per un bel giro in bici. Sì, ci vorrebbe proprio. Peccato non ce l’hai. Beh dai, ognuno c’ha le convinzioni sue. E’ giusto così. Vai pure verso la metro che io mi faccio la ciclabile che costeggia il Po’. E’ quasi tutta in fiori. Album dei Little Dragons e via! A pedalare tra i fiori e il tramonto! Ciao, Fede! A domani.- Quella fu l’ultima goccia. Fabri aveva vinto. Il padrone di casa aveva accennato a biciclette e passeggini relegati in soffitta. Per la paura dei secondi, in soffitta non c’ero mai andato. Così, una volta giunto a casa, vinsi la paura dei passeggini, salii in soffitta e rovistai fra le porcherie che l’ex inquilino del mio appartamento aveva abbandonato. Cucine. Due. Mobili, un’infinità. Bambole. Libri. Vestiti vecchi. Borsoni. Piatti. E, nemmeno a farlo apposta, ecco due bici. Una Mountain-Bike senza ruote e una Lady da corsa degli anni ’70 colore blu metallizzato. Di bici io non ci capisco un cazzo, quindi penso: “Domani ci porto Fabri qui e vede un po’ se quei due telai sono davvero delle biciclette utilizzabili.” Fabri il giorno dopo arriva e insieme andiamo in soffitta. Dà un’occhiata alle bici. E no, non sono utilizzabili. Mi dice che la Lady da corsa degli anni ’70 potrebbe esserlo se ci cambiamo un po’ di cose. “E’ una bella bici, tra l’altro. Guarda un po’ che culo che c’hai! Hai vinto una bici da corsa vintage. Questa sì che è una bella bici.” La tiriamo quindi fuori. Le diamo una lavata e la portiamo sul ballatoio del mio appartamento. Fabri mi dice che ci vogliono meno di 100 euro per metterla a posto e insiste sul fatto che quella è una bella bici. “Massì guardala! E’ proprio una Lady del ’70. Da corsa! C’ha pure il manubrio da corsa. Guarda che bella bici da corsa vintage che ti sei trovato.” Io penso che sticazzi, 100 euro ce li ho e non posso nemmeno spendere tutti i miei soldi in pizza. Qualche giorno dopo andiamo da Decathlon e compriamo i pezzi da ricambio per rendere la bici cavalcabile. L’indomani Fabri viene da me, si porta un set di chiavi inglesi – simbolo del vero uomo (adulto) – e si mette a sferragliare. E’ tutto contento Fabri mentre mi mette a posto la bici e sorride gaio, dai rossori della sua folta barba. Qualche ora dopo la bici e pronta e, per Dio, non manca che provarla. Nel frattempo, l’entusiasmo di Fabri ha convinto un po’ anche me e, mentre spengo una sigaretta, penso che in fondo un po’ di moto non può che farmi bene. Massì, proviamola sta bici. Inforchiamo e partiamo. Appena superiamo l’angolo di casa, Fabri articola la frase che, in realtà, io avrei dovuto riconoscere come funesto avvertimento. Scendere dalla bici, tirare un cazzotto a Fabri, e scappare a prendermi un taxi. Questo avrei dovuto fare. E invece no. -Poi guarda, la prima volta che la provi, considerato che è stata ferma per tanto tempo, magari succedono cose strane. Ma vai tranquillo. E’ normale.- dice Fabri. Io lo ascolto e, vigliacco, tapino, continuo a pedalare. All’andata tutto normale. Io e Fabri pedaliamo fianco a fianco e l’aria che mi sbatte contro il petto mi fa ricordare quando, infante nella mia Valle, con la bicicletta di mio padre andavo al campetto in via Rubattera a spaccarmi di calcetto. Fabri addirittura si offre di provarla la mia bici. Facciamo così cambio per qualche isolato ed ecco la seconda frase che avrei dovuto di nuovo cogliere come premonitrice. -Dobbiamo ancora farci qualche lavoretto. Non è ancora a posto a posto. Ma per oggi può andare. A casa ci torni.-
Giungiamo quindi in ufficio, lavoriamo filati tutto il pomeriggio e quando arrivano le sette, io devo recarmi in C.so Galieo Ferraris per un meeting. L’incontro dura meno del previsto e per le sette e venti sono libero di tornare a casa. C’è il sole. Ci sono i fiori. C’è la bicicletta che, perdiana, è una Lady da corsa del ’70 blu metallizzata.
“Non potrà che essere piacevole.” penso. Non potrei essere stato più nel torto.

Ci vogliono infatti giusto cinque minuti per rendermi conto che in realtà il viaggio di ritorno sarebbe stato un disastro. Perdo il bullone che tiene avvitato il pedale sinistro, che inizia a ballare fastidiosamente sotto il mio piede. Invidioso, il pedale destro si sgancia anch’esso e inizia a grattare contro una parte del telaio. “Massì” penso io “è una Lady del ’70. Qualche acciacco ce l’ha per forza.” Continuo a pedalare. Mi dimentico però di un mio piccolo problema inerente al senso dell’orientamento. Per farvela breve, io ho un pessimo senso dell’orientamento. Ma pessimo davvero. Penso sia un danno neurologico perché ero epilettico da piccolo. Riesco a perdermi nella villa dei miei zii. Non ho ancora imparato la strada per raggiungere la mia casa al mare, giungendo dal mare. Sono un fottuto disastro. E’ troppo tardi quando mi rendo conto che, sì sto pedalando stoico, ma non so verso dove. Do un occhiata al navigatore e maledetto sia il giorno in cui ho deciso di comprare il Nokia Lumia. Il navigatore funziona di merda e non riesce a rilevare la mia posizione. Chiedo indicazioni e con sconforto scopro che sono finito a Torino Nord, oltre Porta Palazzo. Io abito in zona Bengasi. Profondissimo Torino Sud. Bestemmio appassionatamente. Mi giro su me stesso e torno indietro. Se sono finito a nord e devo andare a sud, basterà tornare indietro. Sto cazzo. Dopo altri venti minuti di pedalata scopro che sono di nuovo sulla direzione sbagliata. Mi arrendo e chiedo indicazioni. Mi risponde un signore gentile, ciclista anche lui, che dopo avermi dato indicazioni mi guarda impietosito e mi dice:- Da qui non puoi prendere nessuna ciclabile. E’ un po’ di strada da fare. Ti ci vorrà un po’. Occhio alle macchine.- Devo raggiungere Porta Nuova e poi percorrere tutta via Nizza. Il tramonto c’è ancora ma c’è anche foschia, quindi la luce non riproduce strabilianti colori. Non ci sono i fiori. Non c’è l’aria sul petto. Fa freddino. Le automobili sfrecciano alla mia sinistra e i loro specchietti attentano tutti alla mia vita. E, croce delle croci, ho dimenticato in ufficio gli auricolari. Sconsolato pedalo. E pedalo. I pedali ballano e grattano. Le ruote cigolano. Il sellino è così scomodo che inizio a temere di dover dire, una volta arrivato a casa, alla mia ragazza che ho avuto un’esperienza gay. Poi eccolo, il fato. Eccolo a peggiorare enormemente le cose. Nello scendere da un marciapiede, la ruota anteriore subisce un contraccolpo che fa cedere una camera d’aria, sgonfiandosi quasi completamente. Il contraccolpo lo subiscono anche i miei polsi, che si indolenziscono. Dovrei scendere dalla bici e portarla a mano per non danneggiare ulteriormente la ruota ma la mia voglia di rincasare è così alta, che mi sto già ritenendo un eroe per non aver mollato per strada la bici e preso un cazzo di Taxi. Continuo così a pedalare cercando di poggiare il peso sulla ruota posteriore piuttosto che su quella anteriore. Ma la Lady blu metallizzato del ’70 ha il manubrio da corsa. E’ quindi basso. E stare in posizione eretta vuol dire non potersi appoggiare al manubrio correttamente. “Da piccolo sapevo andare senza mani!” penso fiducioso delle mie capacità motorie. Stacco le mani e accelero il ritmo delle pedalate. Funziona. Per i primi 7 secondi. Poi sbuca una macchina da un parcheggio e per evitarla sono costretto a buttarmi in avanti per sterzare rapidamente. La ruota sgonfia non regge la brusca virata. E io volo a terra. L’autista dell’automobile scende lesto dall’auto. Mi dà una guardata per accertarsi che io sia vivo e che non ci sia sangue. Io sono vivo, sangue non ce n’è. Biascica un “Tutto okay, ragazzo. Apposto così!”, torna in auto, mette in moto e se ne va. Io mi rialzo. Inforco di nuovo la bici ma stavolta poggio le mani, seppur lievemente, al manubrio. Giunto a Sommariva, i freni smettono di funzionare correttamente e – ‘sto giro per evitare una signora con bambino a seguito – impatto contro un cassonetto della plastica, che cade dal marciapiede e finisce sulla strada. “Questo è Dio che mi sta punendo per qualcuno che ho trattato male questa settimana.” penso sconfitto. Raccolgo la bici. Raccolgo la plastica. Rimetto in piedi il cassonetto e lo trascino di nuovo sul marciapiede. Casa dista 5 minuti a piedi. Scendo dalla bici, metto la mano sinistra sul manubrio e cammino al fianco della Lady degli anni ’70, fino a casa.

Varcata la soglia, Adelia – la mia sopracitata ragazza – mi fa notare che puzzo e che sono tremendamente sporco, di sangue, di sudore e di sporcizia. “La bici non fa per me.” penso. Butto le chiavi sul tavolo -alle quali ho anche aggiunto la chiave che apre il catenaccio per proteggere la Lady da corsa del ’70 dai ladri -, la guardo con occhi stanchi e arreso borbotto:- E’ tutta colpa di Fabri.


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